IL SILENZIO DELLE INNOCENTI

Si parla spesso della violenza sulle donne, ma si parla poco delle donne che subiscono violenza psicologica protratta nel tempo, cosa non dimostrabile dai lividi dato che le ferite sono prevalentemente interne e perciò non visibili, perlomeno ad uno sguardo superficiale. Lo scopo di questo breve racconto, per il quale userò dei nomi di fantasia, è quello di far riflettere su situazioni ancora molto diffuse nel nostro Paese. Dopo la rabbia, dovuta all’impotenza di fronte ad un fenomeno culturale dalle radici complesse e profonde, non può che subentrare una forte empatia e solidarietà per queste donne condannate “legalmente” da una società che troppo spesso non riesce ad arginare la prepotenza e la violenza psicologica all’interno delle mura domestiche.
E’ la storia di Katia, una donna costretta a sposarsi perché Fabio, il suo primo ed unico fidanzato, l’ha corteggiata, le ha promesso amore e l’ha fatta sentire per un periodo una regina: nonostante di regine lui ne avesse molte altre, lei in quel periodo era la preferita. La sua dichiarazione d’amore? “Ci sposiamo tra qualche mese, o accetti oppure sappi che dietro di te c’è la fila…” che dire! Di romantico c’è ben poco. Ma Katia in quel momento, e la sua famiglia, pensavano fosse un affare, un’opportunità da non perdere. La detenzione inizia dopo pochi giorni: come da copione le donne cucinano, puliscono, lavano, seguono i bambini e non devono farli piangere, altrimenti l’uomo, che lavora tutto il giorno, si potrebbe innervosire. Madre e figli possono piangere in silenzio, o magari nel pomeriggio. Queste donne non hanno bisogni né esigenze da soddisfare, hanno solo doveri, anche il dovere di dire che va tutto bene e che lui non le fa mancare nulla. Lei può piangere, ma solo se nessuno la vede e solo se nessuno ne verrà mai a conoscenza. Anni e anni di vita coniugale, anni e anni di violenza silenziosa.
I figli si fanno grandi e così si tira fuori il coraggio, la forza di parlare e di provare a svelare cosa accadeva in quella casa. Tutti rimangono stupiti: “ma è un brav’uomo, non ti ha fatto mancare nulla”, qualcuno aggiunge anche: “ti ha anche sposato!”. La sua stessa famiglia: “ma cosa ti è saltato in mente? che dirà la gente? Che figura ci facciamo? ma non hai pensato a noi? E ora chi ti prende?”
Inizia una trafila legale: Bene! È un’opportunità per denunciare tutto quello che ha vissuto e subito. Iniziano così i racconti tra paura, titubanza e vergogna, tanta vergogna. I professionisti ascoltano con interesse e con incredulità, lei percepisce la loro compassione e complicità, dovrebbe essere contenta, ma questo le fa ancora più rabbia perché si chiede: “perché degli estranei dovrebbero comprendermi, quando la mia famiglia non lo ha mai fatto?” Poi aumenta la paura: “come reagirà lui quando lo verrà a sapere? I miei figli che diranno? Dove andrò ad abitare? Come potrò mantenermi?” Poco alla volta Katia comprende che parlare, dando libero sfogo alle sue sofferenze, significa condannarsi da sola.
E’ oramai ad un bivio: continuare a subire in silenzio o riprendersi i suoi diritti di donna e denunciare le violenze che nel tempo si era convinta fossero “normali” e quasi meritate, dimenticandosi che le donne, almeno alcune donne, hanno dei diritti ? in effetti lo aveva sentito dire, ma nel tempo si è poi convinta che questo non valesse per lei, per le donne di alcuni paesi del sud. Si fa coraggio ed inizia un percorso giudiziario: psicologi, avvocati, giudici. Tutti la incitano a denunciare, a dare finalmente voce a tanti anni di malessere, e più le persone la incoraggiano più lei si sente libera, si sente meglio, non le sembra possibile. Poi un giorno la fanno sedere accanto a lui ed inizia un confronto. Le si gela il cuore, la mente smette di pensare, si sente bloccata e si fa piccola. Lui la trafigge col suo sguardo come una coltellata, incutendole un terrore mai provato prima, sebbene si mostri come un agnellino, come faceva ogni volta dopo averla picchiata; era il suo modo di chiederle scusa e di dirle che l’amava, prima di picchiarla di nuovo.
Inizia a chiedersi “Che mi accadrà? Dove andrò? E se lo rivedo da sola? E se mi toglie i figli?” all’improvviso si sveglia da quel sogno di libertà che per un po’ aveva creduto potesse avverarsi. Inizia a pensare ai suoi figli e al loro futuro, anche la sua famiglia le dice che non può essere così egoista. Il giorno seguente per prima cosa chiama il suo avvocato, gli dice che ha esagerato e che era solo molto arrabbiata, in fondo lui è stato ed è un buon padre, tutto sommato anche un buon marito, che non le ha fatto mai mancare nulla.
Così poco tempo dopo arriva la notifica: “ARCHIVIATO!!!”. Tutto archiviato, anche il suo sogno.
Tutto il suo coraggio, la sua volontà di denunciare i soprusi le violenze subite, vengono trascritti su dei fogli racchiusi in un fascicolo che nessuno mai leggerà più.
Inevitabilmente Katia continua a pagare il prezzo della sua “bravata”, come la definiscono i suoi familiari: i maltrattamenti continuano con assiduità, ma questa volta sono giustificati, dice lui, “ mi hai messo in ridicolo, hai quasi rovinato la nostra famiglia con la tua spavalderia, ora non mi posso fidare più di te!” Inconsciamente gli ha offerto un motivo in più per accanirsi su di lei, e ora lei ha un motivo in meno per rispettarsi, per dar voce alle ingiustizie subite, quella voce che quel giorno in Tribunale lui le ha tolto per sempre mentre la “giustizia” osservava inerte.
Sono troppe le donne che subiscono in silenzio, dietro una sudditanza psicologica, l’annientamento della loro personalità, il disarmo della volontà, il ricatto, il terrore, il disprezzo per se stesse e tanta vergogna e umiliazione.
A volte non essere credute o vedere banalizzata la propria sofferenza è peggio che essere maltrattate. Sentirsi dire “se l’è voluta, l’ha provocato, non ha fatto abbastanza resistenza…” non fa altro che rafforzare il convincimento che il silenzio è la cosa migliore per limitare i danni, per mantenere un equilibrio, magari patologico, ma comunque un equilibrio che consente di sopravvivere.
Dare voce a queste storie è, in certi casi, l’unico modo per aiutare queste donne a superare la vergogna, affrontare il senso di colpa, comprendere che la violenza non è mai giustificabile, cercando per quanto possibile di stimolare un processo culturale che resiste anche alle leggi ed ai tribunali, perché i drammi di queste persone non siano stati del tutto vani.